Giampiero Finocchiaro, dirigente scolastico e responsabile nazionale circoscrizione ds estero udir – ha analizzato approfonditamente la situazione dei dirigenti in servizio all’estero

Il pagamento della parte variabile della retribuzione di posizione dei Dirigenti scolastici è ormai una vexata quaestio. È tristemente nota la frequenza con cui le leggi scritte generano conflitti di interpretazione che si trasformano in lacrime e sangue per le persone che lavorano per lo Stato mentre lo Stato, distante come il Signore dei cieli, non sembra cogliere le realtà concrete.

Due articoli della stessa norma del contratto collettivo di settore apparentemente si contraddicono. All’art. 13 si dispone che i DS con incarico estero percepiscano sia la parte fissa che quella variabile della retribuzione di posizione. Il successivo art. 48 invece presenta un semplice vuoto: si menziona la parte fissa ma non la variabile.

Ciò ha dato vita a interpretazioni diverse da parte degli USR e dei relativi Uffici della Direzione del Tesoro. Risultato: ad alcuni è stata pagata, ad altri no, ad altri prima pagata e poi recuperata con addebito rateizzato sullo stipendio metropolitano. Eppure, uno dei principi base di civiltà giuridica dispone che di fronte a due situazioni differenti e apparentemente non conciliabili, si applica sempre quella più favorevole al lavoratore: cfr. art. 2077 c.c.. Non è stato osservato. Eppure, tale principio pervade tutto il Diritto del lavoro e in particolare tutta la normativa relativa alla “tutela del lavoratore” e si applica anche nel caso di contrasto tra disposizioni di legge, contratti collettivi e contratti individuali.

La questione radica nel CCNL “PER IL PERSONALE DIRIGENTE DELL’AREA V, QUADRIENNIO GIURIDICO 2002-05 E 1° BIENNIO ECONOMICO 2002-03”. I successivi contratti infatti intervengono per modifiche e/o integrazioni senza annullare la validità della fonte.

In particolare: il CCNL 2002-03 prevedeva, al Titolo III “Rapporto di lavoro”, art. 13 “PERSONALE IN PARTICOLARI POSIZIONI DI STATO” (cioè, i DS con distacco estero e collocamento fuori ruolo), comma 4: “Il periodo trascorso dal personale compreso nell'Area in posizione di comando, distacco, esonero, aspettativa sindacale, utilizzazione e collocamento fuori ruolo, con retribuzione a carico dell’Amministrazione del MIUR, è valido a tutti gli effetti come servizio di istituto, anche ai fini dell'accesso al trattamento economico accessorio. A detto personale competono, pertanto, tutte le voci retributive, ivi compresa la retribuzione di posizione (parte fissa e parte variabile) e di risultato”.

Più chiaro di così si fa fatica a comprendere perché tanto contenzioso dato che questo punto preciso del contratto dispone e disciplina (giuridicamente intesi) le modalità di trattamento economico connesse alla particolare situazione anche dei DS all’estero.

Il successivo art. 48 si trova dentro il Titolo VII “DISPOSIZIONI PER LE SCUOLE ITALIANE ALL'ESTERO”. Vediamo l’art. 48 “RACCORDO CON LE NORMATIVE CONTRATTUALI NAZIONALI E RELAZIONI SINDACALI”.

Il comma 1 dispone: “1. Ai dirigenti scolastici all'estero si applicano gli istituti normativi ed economici previsti dal presente CCNL”. Qui si afferma, dunque, che si deve applicare anche il contenuto dell’art. 13 che si trova appunto dentro il “presente contratto”. Eppure, viene disatteso. Come può accadere?

Il successivo comma 4 afferma: “Per quanto riguarda la retribuzione di posizione, questa è corrisposta in misura pari alla parte fissa della retribuzione di posizione prevista dall'art. 56 del presente CCNL.”.

Cosa dice l’art. 56? “ART. 56 - RETRIBUZIONE DI POSIZIONE”.

  1. 1. “A valere sulle risorse che si rendono effettivamente disponibili ai sensi dell'art. 55, la retribuzione di posizione è definita, per ciascuna funzione dirigenziale, nell'ambito del 85% delle risorse complessive del fondo, entro i seguenti valori annui lordi da corrispondere per tredici mensilità:

dal 1.1.2002 € 1.529,07 e dal 1.1.2003 € 2.270,72 valore minimo (parte fissa);

dal 1.1.2002 € 33.560 valore massimo (parte variabile)”.

I giudici che negano il diritto alla retribuzione di parte variabile si basano su questa che in realtà sembra una vera dimenticanza. Si assegnano 2.270,72 euro per anno e se ne tolgono 33.560. Ma se si legge per intero l’art. 56 si trova la prova, a nostro giudizio, dell’errore interpretativo. Si legge infatti al comma 2: “In sede di contrattazione integrativa regionale sono definiti i valori economici della retribuzione di posizione, parte variabile, tenendo conto dei criteri stabiliti all'art.13, comma 5 del CCNL 1° marzo 2002”.

Purtroppo, l’art. 13 del CCNL 2002-03 non ha il comma 5! Arriva al 4 che, come anticipato, dispone ulteriormente: “A decorrere dal 1° settembre 2006 la retribuzione di posizione (parte variabile) e quella di risultato sono previste nell’identica misura di quella attribuita nella sede di titolarità”. Occorrono altre prove che il CCNL sia oggetto di errori che non possono autorizzare interpretazioni a discapito dei lavoratori? E che, al contrario, in caso di dubbio l’Amministrazione è obbligata a optare per la soluzione più favorevole per i lavoratori come statuito dal Codice Civile?

In sostanza: l’art. 48, che a nostro giudizio presenta una semplice distrazione, crea un dubbio interpretativo sulla base dell’art 56 che però paradossalmente ribadisce il diritto alla retribuzione della parte variabile.

A seguire uno schema che fa visualizzare il processo interpretativo delle norme in questione:

 

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Interviene il nuovo CCNL a far luce. La categoria dei DS sperava in una specie di “interpretazione autentica”. Ma ancora una volta l’uso delle parole fa la differenza (perciò Carlo Levi diceva: “Le parole sono pietre”). Il nuovo “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo al personale dell’Area Istruzione e Ricerca triennio 2019 – 2021” dice esplicitamente che tale diritto alla parte variabile verrà applicato a partire dall’agosto del 2024. La prima domanda sarebbe: perché un contratto che si riferisce al triennio 2019-21 si occupa di fissare una data “futura” per l’applicazione di un principio che nella sostanza coinvolge anche il triennio in considerazione ma nella forma lo esclude? Un errore o una furbizia? L’arco temporale di un “contratto” è amministrativamente vincolante e validante. Il contratto in questione dovrebbe riferirsi esclusivamente al periodo considerato. Se l’intento nascosto era impedire che il riconoscimento esplicito della parte variabile avesse valore di interpretazione autentica, quindi anche per il passato pieno di ricorsi e interpretazioni rapsodiche, perché il CCNL in questione non stabilisce nulla esplicitamente in merito alla parte variabile per il periodo a cui si riferisce? Da un lato cioè il contratto sancisce il principio per cui i DS all’estero hanno diritto alla retribuzione di parte variabile, ma dall’altro fissando impropriamente una data futura rispetto al contratto stesso (agosto 2024), crea un ennesimo vuoto non esprimendosi esplicitamente per il periodo di validità del CCNL stesso (2019-2021).

Ha valore legale un contratto con queste contraddizioni? Se l’intento era negare la parte variabile per gli anni oggetto del contratto, perché non inserire un comma che esplicitamente lo negasse, facendo riferimento a norme e fonti che lo rendessero possibile? Lo Stato è arbitro o semplicemente arbitrario?

La scure cade così sui ricorsi in progress. Una recente sentenza di Cassazione, alla luce del nuovo CCNL, rifiuta a una DS ricorrente il diritto al pagamento della parte variabile per gli anni precedenti all’agosto 2024 proprio in base al nuovo contratto. Ma ancora una volta si tratta di una sentenza per vuoti. Si limita infatti a ribadire: “Il CCNL è stato stipulato ai primi di agosto del 2024 e dunque il diritto sussiste per l’anno scolastico successivo, che è il 2024/2025”. Un semplice automatismo giuridico e burocratico (di quelli che si disinteressano della vita delle persone, le stesse a cui si riferiscono i discorsi istituzionali quando parlano di “centralità della persona”, sic!) per il quale non occorreva nessun pronunciamento di tribunale tanto è ovvio.

Il problema non si riduce qui, è più complesso. Nella sentenza non vi è infatti nessuna traccia di una preoccupazione di collegamento e coerenza giuridica con le fonti normative precedenti e di conseguenza non vi è nemmeno lo spazio per nessuna considerazione per le realtà umane e professionali che vengono mortificate nelle loro aspettative di giustizia e nei loro diritti. Tale sentenza non ha né il potere né la sostanza giuridica per cancellare i diritti altrove esplicitamente menzionati. È una sentenza che dimostra come lo Stato, perduto e confuso nel suo gigantismo burocratico, metta in opera meccanismi procedurali per consuetudini automatiche che restano cieche alle ragioni dei cittadini. Ma chi si prende l’onere di fare aggiustare le cose? Quali uomini e donne si preoccuperanno di questa vicenda che è presidio di libertà e difesa di democrazia?

Chi ha firmato questo CCNL, tra ARAN e sindacati, non si è reso conto evidentemente dell’ingiustizia sociale che stava mettendo in opera.

A questo punto abbiamo paradossalmente sette diverse situazioni dentro uno stesso profilo lavorativo: dirigenti dello Stato (“lo Stato siamo noi”) che hanno serenamente percepito la parte variabile; dirigenti dello Stato che l’hanno percepita a seguito di ricorso in primo grado in base all’interpretazione di un giudice; dirigenti dello Stato che l’hanno percepita a seguito di ricorso in appello sulla base di un parere di giudici che la pensavano diversamente da quelli del primo grado; dirigenti dello Stato che si sono visti negare la retribuzione di parte variabile a seguito di pronunciamento della Corte di Cassazione (cfr. supra); dirigenti dello Stato che l’hanno percepita per un primo periodo e poi si sono visti addebitare una quota di decine di migliaia di euro sullo stipendio metropolitano per procedere al recupero coatto delle somme già percepite; dirigenti dello Stato che non l’hanno mai ricevuta.

Dirigenti dello Stato che si trovano nei casi 4, 5 e 6 ma che non avendo ancora terminato l’incarico la percepiranno per un breve periodo.

Tutti dipendenti dello stesso Stato per l’esercizio delle medesime funzioni. Lo stesso Stato che tra i propri principi giuridici annovera anche quello per cui a parità di lavoro: stessi diritti e stessi emolumenti. Qui si viola addirittura un principio costituzionale (cfr. art. 36 della Costituzione della Repubblica italiana). Possibile che nessuno si preoccupi di tutelare la Carta fondamentale della nostra Democrazia?

Conseguenze: I “dirigenti dello Stato” di cui ai punti 4, 5, 6 e 7, inoltre, si vedranno (ci vedremo) calcolare la pensione su una base inferiore a quella dei colleghi dato che la parte variabile incide sulla natura contributiva del regime pensionistico già ampiamente debole in termini di percentuale riconosciuta (dal 20 al 50% meno rispetto allo stipendio in servizio attivo) e potere di acquisto che dipende dal tasso medio di inflazione – che in Italia è stato dell’8,1% nel 2022 e del 5,7% nel 2023 (dati ISTAT) – e dal tasso di crescita degli stipendi che negli ultimi quarant’anni, 1983-2024, ha registrato una media di aumenti del 3,67% (ma il dato è drogato da un'unica impennata del 15,80% del luglio 1983 senza il quale la media del 3,67 scenderebbe ulteriormente). Può uno Stato permettere tanta diversità di trattamento tra i propri dipendenti che svolgono lo stesso identico lavoro? Lo vieta l’art. 36 della Costituzione.

Cosa fare.

Alla luce del ginepraio creato tutto da attitudini negative come la distrazione nello scrivere le norme (differenze tra art. 13 e 48), la dimenticanza nell’inserire una parola una seconda volta (“parte variabile” nell’art. 48), l’errore umano (la citazione del comma 5 dell’art. 13 nel testo dell’art. 56) e considerando che le leggi invece si scrivono per attitudini positive, i passi urgenti sarebbero:

incontro dei sindacati confederali per redigere un documento comune con cui, data la natura privatistica della forma contrattuale, rivendicare l’emanazione di una interpretazione autentica da parte del Ministero che faccia da riferimento normativo per i giudizi in corso. Sindacati e ARAN devono scrivere a chiare lettere che la parte variabile va sempre riconosciuta. Non è compito dei giudici deciderlo, loro si muovono con quel che c’è perché solo applicano leggi, non le fanno e non possono integrarle quando serve.

richiesta al Ministro del MIM di attivare un tavolo di confronto per dare vita alla “interpretazione autentica” di cui sopra al punto 2 ai fini del riconoscimento della parte variabile senza distinzioni di razza, religione, arco temporale e paese di svolgimento dell’incarico. Tale documento dovrà avere validità assoluta e si dovrà inviare al Ministero di Giustizia per orientare i giudizi eventuali (il MIM risparmierebbe le spese di giudizio, la vergogna sociale e soprattutto il discredito presso i cittadini nel cui e per il cui interesse esiste).

Se il tempo che dedichiamo alle celebrazioni dei numerosi nostri morti per ingiustizie di ogni tipo ci insegnasse davvero qualcosa, dovremmo dedicare molto più tempo a difendere la giustizia anzitutto per i vivi. Lo vorrebbero i morti come Bruno Buozzi che abbiamo da poco celebrato senza esserne degni. Non importa quanto i problemi sociali siano appetibili a fini elettorali, la civiltà giuridica è patrimonio dell’umanità libera e democratica e va difesa per evitare rigurgiti arbitrari e perciò autoritaristici di qualsiasi provenienza.